13 settembre 2006

Poco vetriolo su Amelio

La Cina è vicina?
(Uno degli sgherri di Vetriolo, Vetriosanch, voleva sbranare l'ultimo film di Amelio. Ha partorito, ahimè, un interminabile, sperticato, elogio)
La Cina io ce l’ho davanti a casa, campionata in un piccolo capannone tessile che sta sotto le mie finestre. Creatura viva e misteriosa dotata d’un moto impercettibile ma costante, come fa “quel mare nero che si muove anche di notte e non sta fermo mai”. Gente che sembra desiderare soprattutto di non esser notata. Felpate operazioni di carico e scarico da anonimi furgoncini all’imbrunire. Rare discussioni tra compari subito sedate dietro una saracinesca. Poi quel ronzio lontano e continuo degli aghi elettrici che non conosce orari. Che nelle afose notti estive penetra nel mio quotidiano dalle finestre spalancate. Mentre io dormo loro lavorano. Lavorano sempre. C’è qualcosa di disperatamente nichilista nel pensare (non posso che pensarla) una vita fatta unicamente di lavoro. Con le sole pause fisiologiche a cadenzare i ritmi di una quasi bio-meccanica unità di produzione. Ed è questo sottile incubo che s’insinua nello spazio del mio vivere a disturbare, ben più della ritmica ronzante degli aghi elettrici.
Ho riconosciuto qualcosa di questa sensazione nel film di Gianni Amelio “La stella che non c’è”, che infatti risulta un film disturbante e sgradevole ben più di quanto volessero esserlo le opere precedenti del regista calabrese. E’ un film tanto privo di gratificazioni per lo spettatore da rischiare il rifiuto (difficilmente avrebbe vinto un concorso). Apprezzabile per il coraggio di lavorare davvero per sottrazione, ma non nel modo oggi “a la page” del minimalismo “sporco” e clipparolo di chi non ha un bel niente da dire. Infatti Amelio sottrae non tanto sul piano dell’immagine. La Cina la vediamo eccome nella bellissima opacità livida e ferrigna della fotografia di Luca Bigazzi. Amelio toglie sul piano del senso. Adotta qualcosa di simile a quel nichilismo disperato che la “mia” personale Cina sottocasa comunica a me, per raccontare un luogo dell’assenza e della negazione. Tutto, nel film e intorno al film, sembra contagiato dall’annullamento.
Si parte da un romanzo il cui titolo è già programmatico, “La dismissione” di Domenico Rea, sulla chiusura della grande acciaieria Ilva di Bagnoli. Per di più lo si nega nel suo filo narrativo, partendo dalla fine della storia per immaginarne un seguito che sulla carta non c’è (un seguito che porta Vincenzo Buonavolontà-Sergio Castellitto in Cina alla ricerca dell’acciaieria perduta e di un difetto segreto che deve essere riparato). Si adotta un altro titolo che fa riferimento diretto a qualcosa che ”non c’è”. Dopo avere azzerato la trama del libro Amelio vi innesta il tema del viaggio, a lui caro, ma la destinazione è stavolta un luogo tanto “altro” che i suoi abitanti non sanno più chi siamo noi ("Gli italiani sono irakeni?" chiede un personaggio cinese). Un luogo che ci inghiotte, dove possiamo perderci perché perduta è la nostra identità di origine.
Come nell'Albania de “Lamerica”, nella Torino anni ‘50 di “Così ridevano”, nella Berlino de “Le chiavi di casa”, Gianni Amelio cerca altrove l'Italia che non c'è (più): «In Cina non sono andato per scoprire la Cina, sono andato per capire meglio un operaio italiano» ha dichiarato Amelio. Ma questa volta il gioco è portato all’estremo e ribaltato. Lo specchio (deformante?) in cui il regista di “Il ladro di bambini” ci porta a rifletterci è diventato un non-luogo, senza mappe leggibili, in cui non possiamo orientarci. Un incontro senza possibilità di scambio dialettico, dove qualcosa va sempre lost in translation, come nella scena iniziale del dialogo tra Castellitto e la delegazione cinese che porta al licenziamento della traduttrice (anche in questo caso per la mancanza di un minimo comune denominatore morale). Il rapporto base del film tra il personaggio del manutentore (che non sembra riuscire a mantenere alcunché) Vincenzo Bonavolontà (nomen omen) e quello della ragazza cinese, si stabilisce proprio su questa perdita, su un azzeramento.
Ed è questo rapporto basato su un vuoto che ci conduce in Cina, territorio alieno e onirico, formicaio di palazzi-fabbrica, di vita-lavoro, di vastità e complessità intangibile. Sembra procedere d’un moto inerziale che ha il segno dell’ineluttabile. Amelio non cade certo nel bozzettismo stereotipato del paese ostico e strano come il suo alfabeto. Ma trasmette un senso di impenetrabilità inquietante appena mitigato da misteriosi segni di umanità ("I cinesi prima ti fanno lo sgambetto, ma poi ti aiutano a rialzarti" dice la ragazza dopo il kafkiano arresto del protagonista). E’ lungo il percorso, sempre più indefinito, tra remote province industriali, che si motiva l’agire del personaggio di Castellitto, ossessionato dalla ricerca dell’altoforno a cui ha lavorato per una vita, venduto a qualche fabbrica cinese, cui manca però un pezzo da lui costruito, un piccolo cuore d’acciaio, per funzionare bene. Così crede lui, almeno. Visto che nessun altro sulla faccia della terra sembra preoccuparsene.
Bonavolontà-Castellitto è un uomo senza passato (non ne rivela nulla) mosso da un scopo nobile ma arido come il pezzo di metallo che si porta appresso per mari e per monti. La sua stella è quella che non c'è. E' l’assenza del calore di un affetto, la vacuità di un'esistenza votata solo al lavoro. Dominata dall’assenza è anche la vita di una madre emigrata nella lontanissima Italia (la ragazza cinese interpretata da Tai Ling), i cui problemi esistenziali possono essere elencati come una lista della spesa. Così pure la vita di strada del suo figlio senza padre. E’ come la luce spenta di un giocattolo rotto che non si può riparare, neppure con la b(u)ona-volontà. Amelio nega l’happy end: il figlio senza padre potrebbe incontrare l’uomo senza affetti e la donna senza famiglia. Ma è solo una possibilità, appena suggerita da un “noi” che il protagonista usa alla fine del film. In questo “La stella che non c’è” ha un esito narrativo meno accomodante e consolatorio di “Le chiavi di casa”. E’ più rigoroso e intransigente. Sembra quasi il segno di una svolta poetica in un autore a volte sfuggente come Amelio, ma mai così amaro.
La scena più potente -in questa personale visione del film- dura solo pochi secondi e mostra il piccolo pezzo di acciaio rotolare in un grande raccoglitore di rifiuti metallici. Il tassello mancante che il “manutentore” Castellitto è riuscito a costruire dopo anni di studio viene buttato via perché “oggi le macchine ne producono di migliori”. Il frutto di tutta una perizia artigianale ormai senza prezzo, il simulacro di tanta ostinata determinazione, finisce alle ortiche. La fatica titanica di un viaggio dettato da sentimenti di solidarietà e altruismo viene vanificata e azzerata, per mano di un anonimo operaio cui Bonavolontà ha consegnato la preziosa reliquia come ad un salvatore giunto allo stremo delle forze a raccogliere il testimone. Il povero manutentore neppure se ne rende conto e anzi racconta più tardi alla ragazza che “è andato tutto bene, sono stato fortunato.”
E’ un epilogo tra più amari e cupi che mi sia dato ricordare, destinato a fissarsi nella memoria. Sfiorato da una sorta di nichilismo, appena mitigato da una possibilità di ricomposizione finale, che sorprende in Amelio e va decisamente fuori dai binari del cinema che gira intorno.

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